Dagli insetti al vino "Low-SO2"
La chitina potrebbe essere impiegata come composto antimicrobico alternativo ai solfiti
Data:06 Oct 2022
Francesco Tedesco - Dottorato in Scienze Agrarie, Forestali e degli Alimenti.
L'articolo viene pubblicato nell'ambito della collaborazione avviata tra la rivista AGRIFOGLIO e la Scuola di Scienze Agrarie, Forestali, Alimentari e dell'Ambiente dell'Università della Basilicata.
Introduzione
Il vino è una bevanda alcolica ottenuta da un processo di fermentazione operato da lieviti in grado di convertire il glucosio presente nella matrice di partenza, ovvero il mosto d’uva, in etanolo.
La presenza di una vasta gamma di microrganismi sulle bucce d’uva e sulle attrezzature che accompagnano il frutto dal vigneto alla cantina, dove sarà trasformato in vino, richiede un rigido controllo microbiologico in ogni fase del processo produttivo, al fine, soprattutto, di inibire l’azione dei microorganismi dannosi che portano ad alterazioni organolettiche del prodotto finito.
Da diversi anni, questo controllo è messo in atto impiegando l’anidride solforosa (SO2). Tuttavia, l’attenzione rivolta alle problematiche legate alla salute umana spingono il mercato verso la richiesta di prodotti salutari, che evitino il più possibile l’impiego di additivi di natura chimica.
Per far fronte a questa richiesta, la ricerca nel settore enologico è attualmente indirizzata verso lo studio di metodi alternativi alla SO2, che non risultino dannosi per il consumatore finale.
L’anidride solforosa
Dato il suo largo spettro d’azione, la SO2 è l’additivo chimico maggiormente utilizzato durante il processo di vinificazione. Essa è aggiunta in forma liquida o gassosa durante i diversi step del processo di trasformazione dell’uva in vino. La SO2 è impiegata per diversi scopi. Primo fra tutti, per l’azione antisettica nei confronti di microrganismi indesiderati per il processo di vinificazione, ovvero batteri acetici (Acetobacter aceti) e lieviti appartenenti alle specie non-Saccharomyces (Hanseniaspora spp., Candida spp., Pichia spp. Brettanomyces spp., ecc.), frequenti nel mosto appena pigiato e che, a seguito delle loro attività metaboliche, portano alla formazione di composti indesiderati nel prodotto finito, inducendo alterazioni, soprattutto dal punto di vista organolettico. La SO2, invece, svolge scarsa attività inibitoria nei confronti del lievito enologico “per eccellenza”, Saccharomyces cerevisiae, per cui il suo impiego assicura un regolare andamento del processo fermentativo.
L’altro scopo per il quale la SO2 è impiegata è quello di evitare fenomeni di imbrunimento del vino, controllando i fenomeni di ossidazione che avvengono in seguito al contatto del vino con l’ossigeno. Infine, l’attività solubilizzante del composto favorisce l’estrazione dei pigmenti dalle bucce durante la fase di macerazione.
Pur presentando diversi vantaggi, gli effetti negativi della SO2 inducono i consumatori a ricercare vini a ridotto contenuto in solfiti. Gli effetti negativi riguardano, innanzitutto, l’insorgenza di difetti sensoriali del prodotto, in particolare quando sono utilizzate dosi eccessive che portano alla produzione di off-flavour tipici dei composti solforati, quali mercaptani e idrogeno solforato. Tuttavia, l’aspetto più critico di questo additivo è il possibile effetto tossico sulla salute umana; infatti, gli individui sensibili ai solfiti riscontrano reazioni avverse sulla pelle, sul sistema respiratorio e sul sistema gastro-intestinale. Per questo, la normativa europea (Regolamento EU No. 606/2009 e No. 479/2008) ha imposto i limiti massimi di solfiti che possono essere presenti nel vino e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che la dose giornaliera ammissibile (DGA) di solfiti deve essere di 0,7 mg di SO2 per kg di peso corporeo.
Metodi alternativi alla SO2
Negli anni, diversi metodi sono stati proposti per sostituire l’impiego dei solfiti in vinificazione.
Essi si dividono in metodi fisici e metodi chimici. Tra i metodi fisici (finalizzati ad allontanare o inattivare fisicamente i microrganismi indesiderati presenti) si annoverano i sistemi convenzionali, come filtrazione e utilizzo di alte temperature, e i sistemi innovativi, come l’impiego di microonde, irradiazione ultravioletta, ecc.
I metodi chimici alternativi, invece, prevedono l’ausilio di alcuni composti autorizzati dall’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV). Tra questi ricordiamo il lisozima, l’acido sorbico, il dimetildicarbonato e il chitosano.
Questi sistemi, seppur validi in quanto utili coadiuvanti nella riduzione dell’impiego dei solfiti, non sono stati in grado di sostituirli completamente, poiché non coprono tutti i loro campi d’azione. Pertanto, sono necessari ulteriori studi, affinché questi approcci possano costituire dei validi strumenti da usare in sostituzione o in combinazione con i solfiti, al fine di creare un prodotto quanto più salutare possibile.
Utilizzo del chitosano
Attualmente, presso l’Università degli Studi della Basilicata, da una collaborazione tra il Laboratorio di Lieviti Fermentativi della Scuola di Scienze Agrarie Forestali, Alimentari e Ambientali e i Laboratori di Fisiologia e Biologia Molecolare degli Insetti del Dipartimento di Scienze, è in corso un progetto di Dottorato di Ricerca che ha lo scopo di valutare l’impiego degli insetti come fonte alternativa di chitosano, e la relativa applicazione nei processi di vinificazione.
Il chitosano è un biopolimero ottenuto dal processo di deacetilazione della chitina, che rappresenta il polisaccaride più diffuso in natura, dopo la cellulosa, ed è presente nell’esoscheletro dei crostacei e degli insetti e nella parete cellulare dei funghi.
Date le sue proprietà, l’uso del chitosano estratto dal fungo Aspergillus niger è stato autorizzato dall’OIV per diversi scopi, come il controllo di popolazioni di lieviti contaminanti del vino (Brettanomyces spp.), rimozione di contaminazioni da Ocratossina A (OTA), riduzione della concentrazione di metalli pesanti e come agente chiarificante.
Sulla base delle informazioni riportate in letteratura, i gruppi di ricerca coinvolti nel progetto di Dottorato stanno studiando l’effetto del chitosano ottenuto da insetti in quanto, per le sue caratteristiche, quali basso peso molecolare e alto grado di deacetilazione, sembra avere proprietà antimicrobiche migliori rispetto al chitosano commerciale. Inoltre, gli insetti, diversamente da crostacei e funghi, sono una fonte sostenibile. Gli insetti, durante il processo di muta, rilasciano il vecchio esoscheletro (esuvia), ricco in chitina, che può essere recuperato e utilizzato insieme agli adulti morti dell’allevamento, per estrarre chitina e trasformarla in chitosano. Inoltre, alcuni insetti, definiti bioconvertitori, sono in grado di nutrirsi e crescere su substrati organici, anche in decomposizione, come ad esempio i sottoprodotti e gli scarti del settore agro-alimentare. La possibilità di utilizzare queste due biomasse di scarto (esuvie e adulti morti), gli unici prodotti di scarto in un allevamento di per sé già altamente sostenibile, come quello degli insetti e in particolare degli insetti bioconvertitori, rientrerebbe appieno in un sistema di economia circolare a scarto zero.
L’obiettivo del progetto di dottorato, pertanto, sarà quello di testare il chitosano ottenuto dalla chitina estratta da insetti, prima su scala di laboratorio e, dopo aver ottimizzato le condizioni sperimentali, testarlo direttamente in cantina, su una scala vicina a quella operativa, al fine di valutare la sua efficacia come composto antimicrobico alternativo ai solfiti (Figura 1). Questo favorirà la messa a punto di un valido mezzo per le cantine che vorranno creare un prodotto di qualità, caratterizzato da un basso contenuto di SO2.
Figura 1. Dall’allevamento degli insetti alla produzione di vino a ridotto contenuto in solfiti, utilizzando chitosano come metodo alternativo alla SO2.