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Giovanni Quaranta: "Aree interne, strappo da ricucire"

Secondo il docente dell'UNIBAS, prima di tutto occorre puntare sulla valorizzazione della diversità e della specificità dei nostri territori
didascalia.

Coltivazione di grano Carosella nel Parco del Pollino.

Data:Thu Aug 27 13:15:00 CEST 2020

Aree interne VS aree "costiere" e di pianura: che cosa succede realmente nei nostri territori, e quali sono le ripercussioni in termini economici? Ne abbiamo parlato con il professor Giovanni Quaranta, del Dipartimento di Matematica, Informatica ed Economia dell'Università degli Studi della Basilicata. 

Oggi ha ancora senso parlare di “Aree interne”?

I processi di globalizzazione che hanno investito il mondo hanno interessato in modo radicale anche l’Italia, determinando vantaggi ma finendo, anche, con l’evidenziare ed accentuare molte contraddizioni. Il lungo ciclo di modernizzazione e l’accelerazione promossa dall’interconnessione globale, entrambi aventi come punti focali i sistemi urbani e le pianure, si sono tradotti in diseguaglianze territoriali sempre più nette. L’Italia, come molte altre aree del mondo, ha assistito, pertanto, all’aumento di “luoghi lasciati indietro”, una infrastruttura territoriale composta da spazi ritenuti marginali. Il meridionalismo classico, con Rossi-Doria in testa, aveva individuato questi luoghi come l’osso da contrapporre alla polpa. Un osso che, dalle vallate alpine ai piccoli borghi dell’Appennino, fino ad arrivare alle coste e alle due principali isole mediterranee, ha difficoltà sempre più marcate ad esercitare il diritto di cittadinanza e dove la richiesta dei servizi di base (trasporti, educazione e sanità) è sempre più disattesa. Considerandole nel loro insieme le “aree interne” arrivano a coprire i due terzi del territorio nazionale e un quarto della sua popolazione, definendo, dunque, una componente, qui certamente non residuale, del territorio nazionale a cui dedicare una attenta riflessione. Iniziative come la Strategia Nazionale Aree Interne riportano al centro del dibattito pubblico, dunque, una vera e propria questione nazionale.

L’urgenza di questa riflessione e di una nuova centralità da assegnare alle Aree Interne nasce sicuramente dalla necessità di arginare le derive di un forte malessere sociale (intolleranza, rifiuto del sapere scientifico, desiderio di comunità chiuse, per ricordarne qualcuno) manifestato dalle popolazioni che le abitano che, coniugandosi e saldandosi al dissenso delle periferie urbane, alimenta una “geography of discontent” e quel fenomeno definito da Andrès Rodrìguez-Pose della “revenge of the places that don’t matter”, ovvero un dissenso sempre più esplicito espresso da quanti si sentono sconfitti dal sistema globale ed esclusi dai centri di ricchezza e benessere. Questa motivazione però, da sola, non spiega tutto. Come la crisi pandemica ha evidenziato tragicamente, è urgente e non più eludibile una profonda riflessione critica sul modello di sviluppo dominante e sugli esiti che la “tempesta perfetta” di crisi economico-sociale e crisi ambientale avranno sullo stesso. Letto in quest’ottica, un rinnovato interesse per le Aree interne potrebbe spostare l’angolo visuale da “problema” ad “opportunità”. Ma perché le aree interne possano diventare efficacemente luoghi di nuove iniziative ed economie è necessario un approccio che le integri e le colleghi al resto del Paese. E’ necessaria una “ricucitura dello strappo”, come sottolinea efficacemente Fabrizio Barca, tra due componenti della nostra nazione che non hanno senso l’una senza l’altra. Un “nuovo” discorso sulle Aree interne deve necessariamente andare di pari passo con una riflessione su quanto sta avvenendo nei centri. E’ nel ripensamento di questa dialettica e nella ricerca di un rapporto osmotico tra città e territori “altri” che possono essere rintracciate le ragioni di una centralità delle aree interne (!) e, soprattutto, individuate le nuove funzioni da attribuire alle stesse.

Quali sono i fattori che realmente provocano una diversa velocità rispetto ad altre aree più avvantaggiate? E cosa accade in Basilicata?

Il sistema complesso di indicatori utilizzato per costruire la Strategia Nazionale Aree Interne ha permesso di identificare i territori meno dotati di servizi di base del Paese, dove il calo demografico è più pronunciato. Dove si produce quasi la metà del PIL, senza considerare il valore dei servizi ecosistemici che in queste aree si determinano, si assiste contestualmente ad un deterioramento degli indicatori demografici e alla già ampiamente sottolineata perdita di servizi. Una fotografia impietosa del fallimento del paradigma fondante dell’attuale modello di sviluppo, secondo il quale spingere verso una crescita economica generale avrebbe poi portato automaticamente i servizi anche nelle aree più remote del Paese.

All’interno di questa nuova geografia, la Basilicata è un esempio paradigmatico degli esiti di un massiccio smantellamento del welfare, prodotto da un trend più che ventennale di politiche pubbliche in cui risparmiare è stata la parola d’ordine.

L’area della Montagna Materana è la più interna delle quattro identificate, con i comuni che ne fanno parte classificati come ultra-periferici. L’assenza di una rete ferroviaria così come della banda larga ne fanno, infatti, un’area completamente “disconnessa”. La carenza di servizi nel settore sanitario, con una popolazione sempre più vecchia, chiude il quadro. Non dissimile è la condizione dei Comuni che delimitano l’area del Mercure Alto Sinni Val Sarmento, situata all’interno del Parco Nazionale del Pollino. I circa 20 comuni di piccole dimensioni che la definiscono sono interessati tutti da un significativo spopolamento e da un invecchiamento della popolazione. Il territorio di quest’area si caratterizza per l’elevato valore paesaggistico ambientale, con l’87% del territorio classificato come area protetta. Dal punto di vista agricolo, le aziende sono diminuite, però, di quasi il 50%.

Il primo e più importante fattore che spiega le diverse velocità tra i territori risiede, pertanto, nel welfare e, dunque, va da sé che è il welfare l’investimento da cui partire per ridisegnare lo sviluppo delle aree interne. Insieme, di pari passo, vanno le infrastrutture, hard e soft, per ridurre il gap spaziale. Queste sono le condizioni minime per immaginare di intervenire sulla “velocità” delle aree più lente e rappresentano il quadro intorno al quale poter implementare le idee progettuali che si sono venute delineando, incentrate sui prodotti tipici e certificati dell’area, sulla valorizzazione della biodiversità, sulla rivalutazione dei piatti della tradizione enogastronomica. Anche la scuola rappresenta una leva importante per la tenuta del territorio. All’ultimo posto posizionerei il turismo: è sicuramente un settore importante, per il quale rilevo una vocazione territoriale significativa ma è un comparto economico intrinsecamente volatile e, soprattutto, affinché diventi una vera leva di sviluppo necessita di un territorio solido sulle cui gambe può camminare e svilupparsi.

Quali sono i fattori che, almeno potenzialmente, dovrebbero essere messi in piedi?

Premesso che in una fase della nostra storia di così grande accelerazione e di così repentini cambiamenti azzardare previsioni è sempre più un’impresa ardua, mi sentirei di indicare alcune tracce di lavoro su cui innestare processi e dinamiche di intervento.

In primo luogo, anche come sottoprodotto nobile delle mie attività di ricerca sulla resilienza dei sistemi socio-ecologici e sulla implementazione della Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile in Basilicata, punterei su una piena e compiuta identificazione e valorizzazione della diversità e della specificità dei nostri territori. La diversità geomorfologica e climatica così come la biodiversità agricola, senza dimenticare quella “umana”, con i dialetti a rappresentare le sedimentazioni della nostra storia, vanno vissute non come un disvalore ma come una vera e propria ricchezza.

Perché questo possa compiutamente determinarsi sono necessari altri due elementi. In primo luogo l’abbandono definitivo dell’ottica della “cristallizzazione” del passato e, quindi, in ultima analisi della spettacolarizzazione se non “folklorizzazione” (folklore rispetto alla città, ovviamente!) della stessa e, in secondo luogo, e decisamente più importante, il salto culturale che andrebbe realizzato. Le aree interne, anche quando non sono povere, perdono popolazione.

Al di là delle problematiche legate ai servizi pubblici e alla mancanza di reali opportunità di lavoro, è evidente che a spiegare questa “emorragia umana” intervenga una sorta di “marginalità culturale” che impedisce a queste aree di riconoscersi come parti integranti nello sviluppo del Paese. Poi c’è una marginalità anche nell’agricoltura: il nostro Paese ha avuto un’industrializzazione rapida e il passato agricolo viene percepito come qualcosa da dimenticare in fretta perché “sporco” e faticoso.

Tutte queste variabili della marginalità culturale si esplicitano poi in una subalternità in cui, a priori, la città è meglio. Bisogna lavorare contro questa visione, consapevoli che le battaglie culturali hanno tempi lunghi. Una percezione del valore e un orgoglio di sé è presupposto fondamentale per “liberare” energie dalle aree interne, certamente frustrate dalla mancanza di servizi, ma soprattutto incapaci di canalizzare il bisogno di cambiamento, di riconoscerlo e di trovare spazi giusti per manifestarlo. A questo riguardo diventa fondamentale ricostruire luoghi di scambio, di condivisione, di aggregazione. Piazze 4.0 che possono essere chiamate “hub”, “spazi di co-working” ma che, fondamentalmente, si configurano come centri di aggregazione dove ci si possa ritrovare e scambiare idee e fluidificare il cosiddetto “capitale sociale”. Favorire questi luoghi significa creare gli spazi utili per l’innovazione. A questo proposito appare abbastanza chiaro il ruolo che possono svolgere strumenti di policy come il Piano di Sviluppo Rurale e, a maggior ragione, i Gruppi di Azione Locale.

Un altro tassello da aggiungere a questo mosaico delle opzioni auspicabili è quello che i tanti piccoli comuni che compongono le aree interne comincino convintamente a lavorare insieme in chiave strategica e non finalizzando la propria azione al solo scopo di ricevere soldi pubblici. Ultimo, ma non per importanza, è il ruolo fondamentale che può svolgere l’amministrazione pubblica: un rafforzamento istituzionale e l’abbandono definitivo di ottiche settoriali asfittiche potrebbero, di sicuro, contribuire alla valorizzazione piena del nostro Paese, non solo delle aree interne.

Agrifoglio n. 98 - Agosto 2020

Temi
Autori
Maria Assunta Lombardi

funzionario ALSIA

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